Io credo che la sconfitta di Corbyn, per la sinistra europea, chiuda un ciclo durato dodici anni.
Alla grande crisi del 2007, e alla fine della trentennale espansione globale del capitalismo, la sinistra ha giustamente risposto alla radicalizzazione sociale che ne è conseguita (impoverimento della classe media, disuguaglianze insostenibili, devalutazione del lavoro rispetto al capitale) con una radicalizzazione della sua proposta politica.
Questo tentativo è fallito. È fallito prima con Tsipras, che ha dovuto accettare il fatto che non esiste oggi una prassi politica democratica che permetta di risolvere le contraddizioni del capitalismo fuori dalla logica liberale, ed ha fallito ieri con Corbyn.
La situazione oggi vede due blocchi di destra, contrapposti e in lotta fra loro. Il primo è il blocco liberale e globalista, sostenuto dalle forze del capitale che sono attrezzate per la sfida globale, e anche, fuori dall’Europa, dalle nuove potenze progressiste asiatiche, la Cina in primo luogo. Questo blocco pone l’economia di mercato, il libero scambio e la democrazia rappresentativa come capisaldi della propria prassi.
Il secondo è il blocco nazionalista e sovranista, sostenuto dal capitale locale, protetto, assistito e sovvenzionato dai governi nazionali, composto dagli imprenditori che hanno perso con la globalizzazione, tra cui la rust belt di Trump e i nostalgici dell’impero in UK, ma anche le piccole e medie imprese inefficienti italiane. Questo blocco ha forti tentazioni autoritarie ed antidemocratiche, ispirate anche dalle consorterie oligarchiche nazionali, e sta vincendo la sfida mettendo in pericolo i diritti politici e sociali conquistati nel Novecento. Nella proposta politica di questo blocco, i ceti popolati impoveriti hanno trovato una dimensione radicale più convincente e comprensibile di quella proposta dalla sinistra.
Il che fare per la sinistra deve partire dalla considerazione che attualmente non esiste una via, sia essa democratica o rivoluzionaria, per il superamento del capitalismo. Non ne esistono i presupposti teorici, non esistono nella società rapporti di forza che la sostengano, non esistono gli strumenti economici, gepolitici e militari per una sua attuazione. Questo è l’insegnamento principale di questi dodici anni.
È impressionante la analogia tra questo periodo storico e gli anni venti e trenta della scorso secolo. Anche allora esistevano il blocco liberale e quello autoritario della destra. Ed esisteva una sinistra che aveva come prospettiva realistica ed attuabile la rivoluzione proletaria in Germania e in altri paesi avanzati. La repressione dei tentativi rivoluzionari, da parte delle forze reazionarie, portò anche all’annichilimento delle istanze liberali, che furono spazzate via dall’ondata fascista.
È un errore da non ripetere, tanto più che oggi non esiste appunto né alcuna prospettiva insurrezionale, né l’Unione Sovietica disposta a sostenerla.
L’unica prospettiva politica razionale rimasta alla sinistra europea è una alleanza con le forze della destra del blocco liberale e globalista, sfidandolo sui temi dell’innovazione e della correzione del capitalismo, come proposto da molti intellettuali di quell’area, dalla Mazzucato a Martin Wolf e altri, che comprendono lucidamente come una involuzione autoritaria del capitalismo e una esplosione incontrollata delle sue contraddizioni possa essere persino mortale per le forze sociali progressiste. Non è ancora tempo per il socialismo. O non lo è più.
Ci lavorammo sopra. Ci lavorai sopra. Appellandomi alla mia etica professionale, per non farmi influenzare dall’antipatia epidermica per il tedesco-con-moglie-cinese, che sembrava il meno interessato di tutti a mantenere il suo posto di lavoro. Mi chiedevo da quali vorticosi turbini di stupidità autolesionista derivasse la sua sciatteria, la sua altezzosa incompetenza. Lavorai come il Galileo di Brecht, cercando di dimostrare “il contrario di quanto attendevo”, cercando caparbiamente la prova del fatto che la filiale cinese era in buone mani, che con un poco d’aiuto da parte nostra si sarebbe rilanciata, che avevamo la persona giusta al posto giusto.
Non ci riuscì. Ormai la filiale cinese assorbiva quasi quanto i profitti delle altre sei filiali messe insieme, in perdite nette. L’incompetenza di chi la gestiva era acclarata aldilà di ogni ragionevole dubbio. Guardammo i contratti, che garantivano al non-più-nostro uomo una uscita dignitosa ma non oltraggiosamente generosa. Studiammo la procedura per sostituirlo nel board in accordo alle leggi commerciali cinesi. Capimmo subito che ci sarebbe stato bisogno di un colpo secco: il tedesco aveva accesso al sistema informativo, ai prezzi, alle offerte in corso. Ai conti bancari. Nel momento stesso in cui li avessimo comunicato il licenziamento, doveva essere messo in condizioni di non nuocere e di non provocarci nessun danno, fosse per dolo o per stupidità.
Proposi Martin come nuovo responsabile della filiale, ma Peter osservò giustamente che non era ancora abbastanza esperto. La soluzione fu di pianificare la nomina di YL come presidente del board, ma, dato che lui era basato a Singapore, di avere comunque Martin, il cinese che si era scelto un nome svizzero, come responsabile della operatività quotidiana. Presi contatto con YL, negoziammo brevemente il suo compenso per la responsabilità aggiuntiva, ci accordammo sul piano operativo. Fu lui a contattare e coinvolgere Martin, come era giusto, dato che sarebbe stato il suo prossimo capo, e a trovare gli avvocati cinesi per le procedure legali.
Volai a Shanghai un martedì, atterrando a fine pomeriggio. Avevo i documenti con me, e una proposta molto semplice per il tedesco: se lui avesse firmato le dimissioni immediate avrebbe avuto diritto al pacchetto di buonuscita completo e a un trattamento gentile sui comunicati e sulla stampa; altrimenti si sarebbe andati ad una battaglia legale, dove avremmo dimostrato in tribunale le nostre ragioni e la sua incompetenza. Ci incontrammo in una sala del mio albergo lungo il fiume, nella parte coloniale di Shanghai. La sua reazione fu quella che mi aspettavo: isterica, infantile, stupida. Minacciò di tutto, e io lo lasciai parlare finché fece il gesto di alzarsi. A quel punto gli intimai che se fosse uscito da quella porta, anche solo per andare a pisciare, la discussione sarebbe stata considerata conclusa, e la nostra offerta non sarebbe stata più disponibile. Era un bluff ovviamente, ma come ho già avuto modo di dire lui era stupido, e il bluff funzionò.
Firmò le dimissioni, gli chiesi di consegnarmi il badge, le chiavi dell’ufficio, il laptop. Ma il laptop lo aveva lasciato a casa. Non potevo andarmene senza il laptop, con dentro tutti i nostri dati, i prezzi, le offerte, i contatti. Gli dissi che saremmo andati a prenderlo a casa sua. Lui protestò dicendo che erano già le undici di sera, che sua moglie era a casa e avrebbe chiesto spiegazioni, ma dovetti essere irremovibile, spandendo a piene mani altre minacce inconsistenti. Alla fine cedette. Salimmo sulla sua auto, e disse all’autista, che parlava solo cinese, di accompagnarci a casa. Il tragitto durò più di un’ora, durante la quale non smise un momento di parlare e di lamentarsi. Io intervenivo di rado, solo quando il tono saliva troppo, per ricordargli chi comandava, quella sera, e rimettere il cretino al suo posto. Quando arrivammo disse di attendermi in macchina che sarebbe andato a prendere il laptop. Dopo mezzora non era ancora tornato. Il cellulare squillò, e una donna che parlava tedesco con forte accento orientale mi chiese perché avessi licenziato suo marito. Le dissi che era un conversazione che non potevo avere con lei, e di dire per cortesia al marito di sbrigarsi a portarmi il laptop. Dopo un’altra mezzora non si vedeva ancora nessuno. Pensai di dire all’autista di portarmi in albergo, ma anche se continuavo a mostrargli l’indirizzo sul biglietto dell’hotel lui non capiva cosa doveva fare: il suo capo gli aveva detto di attendere, no? Che cosa voleva da lui, adesso, questo farang? Pensai che ero in un luogo che non riuscivo a definire, in Cina, a novemila chilometri da casa, e per quel che ne sapevo, ad altrettanti dal mio hotel, alle due di notte, in una macchina non mia, con un autista che non voleva capirmi. Ero elettrico di adrenalina, ma anche stanchissimo, sia per il viaggio che per il confronto, e cominciavo veramente ad essere a corto di idee. Alla fine intravidi la pancia di birra del tedesco nello specchietto, con il laptop in mano. Gli ordinai di dire all’autista di portarmi in albergo. Non ci salutammo. Non lo vidi più.
Un’ora dopo ero di fronte al mio hotel, alle tre del mattino, e avevo sonno e fame. Notai, in una via stretta dietro all’albergo, l’insegna di un ristorante. Era un ristorante italiano, e mi incuriosì il fatto che il menù era scritto giusto. Chiunque viaggi, per lavoro o per svago, conosce bene lo scempio linguistico che viene fatto nei menù di tutto il mondo dei nomi dei piatti italiani: spagheti arabbata, lasanne bolonnaise, eccetera. Invece lì c’era scritto proprio “cannelloni al sugo di carne”. Pensai che avrei potuto uccidere per dei cannelloni al sugo di carne, ma erano le tre e mezza del mattino. Stavo per tornare verso l’albergo, quando notai che dal ristorante, che era al primo piano rispetto alla strada, veniva luce. Più per curiosità che per la speranza che fosse aperto (un ristorante italiano, in una zona pedonale di Shanghai, alle tre del mattino) salii le scale. Era aperto. Anzi, era pienamente operativo. Non c’era nessun cliente, ma le cameriere erano truccate e in ordine, mi vennero incontro, mi accompagnarono al tavolo come se fossero state le sette di sera e presero le mie ordinazioni (cannelloni al sugo di carne e un bicchiere di Chianti “La Madonnina”). Mentre aspettavo il vino chiamai Peter: “Tutto fatto?” “Tutto fatto” “È stata dura?” “È stata dura” “Mi racconterai quando torni. Grazie. Davvero”. Poi chiamai YL, che da ore bivaccava nell’aeroporto di Singapore con in mano un biglietto aperto per Shanghai, pronto a prendere il primo volo disponibile dopo che avesse sentito da me che il campo era libero.
Di fronte a me la finestra aperta dava su un balcone, e oltre, aldilà del fiume, si vedeva la torre dello Hyatt. Il vino mi rilassava, l’ adrenalina scendeva. Pensai ancora che ero lontano, a migliaia di chilometri da casa, ma stavo mangiando cannelloni al sugo di carne in un ristorante di Shanghai alle quattro del mattino. Iniziai a piangere. Non che singhiozzassi, ma non riuscivo a impedire che mi scendessero lacrime copiose, calde, che mi bagnavano la camicia. Non so perché piangevo. Una specie di struggimento verso me stesso, immerso in una solitudine espressionista, perduto nel vuoto di in un paese enorme, lontano. O forse la tensione accumulata prima, che se ne andava. O forse ero solo triste per cose che non ricordo.
“Hanno ammazzato uno dei nostri”. Nostri voleva dire uno della FGCI, se a dire “nostri” era Padoan, giovanissimo dirigente della CGIL. Con le sue giacche da adulto, pallido, davanti a me, all’entrata della scuola. La sera prima i fascisti di Saccucci avevano ammazzato il compagno Luigi Di Rosa a Sezze Romano. Un colpo di pistola contro un ragazzo della mia età, pochi anni di più. Un fratello maggiore. L’età in cui “morte” è una parola senza senso, come “infinito”, o “mai”. In piazza per impedire un comizio fascista, morto accanto a una delle nostre bandiere con la stella. Un compagno della FGCI ammazzato dai fascisti.
Dolore. In un’età in cui si prova dolore vero se muore un compagno, anche se non lo conosci, anche se abitava dall’altra parte d’Italia. O forse era un’epoca così, non so.
“Ho parlato con D’Alema, si va in piazza noi, la FGCI. È uno dei nostri, lo portiamo in piazza noi. Oggi il Partito siamo noi”. E quasi piangeva, veramente. Alessandro, il mio segretario, quello duro, l’ingraiano, piangeva quasi. “Le scuole, tutti fuori”, guardando me. Ero il responsabile cittadino degli studenti medi della FGCI, in una FGCI di studenti medi. E allora via in bicicletta. Si entra in classe anche se c’è lezione (“scusi, prof, è importante”). Oggi assemblea, tutti in aula magna. Stasera alle sette manifestazione antifascista, Piazza Matteotti, venite tutti.
Da Holer, il bar della sinistra cittadina, si organizza il corteo. Portano la loro adesione tutti i movimenti giovanili, i giovani socialisti, i psiuppini, Lotta Continua. Il servizio d’ordine del sindacato. I ciclostile che fumano, basteranno dieci risme? Di fronte al Classico incontro Giuseppe e Luisa, di Comunione e Liberazione. “Ci siamo anche noi, veniamo in gruppo, anche senza striscione se a voi va bene.” Certo che va bene, e ci abbracciamo. I sorci fascisti sono tutti nella loro tana, non se ne vede uno in giro in città.
“Mamma, non vengo a mangiare, sono in Federazione”. “State attenti”. Alle due la Federazione è piena, anche dalla provincia sono venuti a prendere i volantini e le bandiere, in sette su una macchina, o solo per essere lì, nell’unico posto dove si può essere oggi.
“Ha chiamato Marcello. Dice che loro di Lotta Continua, se c’è Comunione e Liberazione, fanno un corteo separato. Secondo me vogliono andare a fare casino sotto la sede del MSI. Pezzi di merda, si vogliono prendere il corteo”. “Se CL aderisce noi la teniamo. È una manifestazione antifascista, cazzo, possibile che non lo capiscano?” “Gianni, parla con Michele, tu lo conosci bene, falli ragionare”.
Michele Morandi, di Lotta Continua, dell’ITI. Notti intere a discutere di politica, quando la notte è l’unico tempo in cui vale la pena vivere. Il compromesso storico, l’estremismo, la rivoluzione. Le gare a contare chi aveva portato più bandiere ai cortei per il Cile. Più di un compagno, più di un amico. Anzi, forse un’altra cosa.
Non so cosa, nemmeno oggi. Quando c’era ero contento, quando non c’era mi mancava, e lo aspettavo. Quando arrivava ero quasi felice. Sapevo che per lui era uguale. Le assemblee infinite, i collettivi studenteschi in quello scantinato che era la loro sede, gli sguardi di intesa quando si sentiva una cazzata davvero, davvero troppo grossa, da qualunque parte arrivasse. Le polemiche feroci, revisionismo e infantilismo. In un’epoca in cui anche tra compagni maschi era d’uso essere sdolcinati e salutarsi con un bacino, noi non ci scambiammo mai nemmeno un abbraccio. Forse nemmeno una stretta di mano, non ricordo. Già le ragazze erano un terrificante, grandioso mistero, figurarsi. E poi Michele e io eravamo troppo sobri, troppo comunisti.
Lo trovo in Via Museo, gli spiego, sa già tutto. “Fammi parlare con quelli, ti faccio sapere”. Ci rivediamo mezz’ora prima del corteo. “Non li ho convinti tutti, ma so come fare. Però mi devi aiutare”. Sapeva come fare, e lo aiutai. Cinque minuti dopo la partenza del corteo, il gruppetto di irriducibili di Lotta Continua era blindato, stretto in un quadrato chiuso dai bastoni delle bandiere di alcuni dei suoi, alcuni dei miei e altri del sindacato. Parla il senatore Mascagni, slogan antifascisti, nessun incidente.
Pochi anni dopo ci saremmo dispersi tutti, chi all’università, chi al lavoro, chi in una famiglia. Alcuni, pochi, in una siringa. Non ci siamo più cercati. Ma io ogni tanto a loro penso. Penso anche a te, Michele. Che vita hai avuto? Sei stato felice, hai avuto figli, hai viaggiato? Ti ricordi di me, di noi?
Per Luigi Di Rosa, militante della Federazione Giovanile Comunista Italiana, ammazzato dai fascisti il 28 maggio 1976.
Vabbè, ve lo racconto oggi che è il mio compleanno, così poi lo ho fatto, e poi ha anche un senso.
All’inizio dell’anno l’ufficio di collocamento di Zurigo mi chiese se volevo svolgere una attività volontaria di mentoring per chi cercava lavoro. Mi dissero che con le mie caratteristiche avrei potuto dare una mano a dirigenti d’azienda un po’ maturi, diciamo.
Accettai. Mi ero trovato in quella situazione al mio ritorno da New York, e so che non è facile. E poi avevo voglia di fare qualcosa gratis, e la politica… beh, lo sapete.
La prima persona che incontrai era stato fino a poco prima un dirigente di una azienda di prodotti di largo consumo. Vabbè, senza tanti misteri: della Nestlé. Scopri presto che la cosa di cui aveva bisogno, lui e quelli che seguirono, era principalmente un aiuto psicologico: la possibilità di confrontarsi con un suo pari senza essere in una situazione competitiva. Chi ha il coraggio di confessare anche ai propri amici che é disoccupato, sopratutto quando ha ricoperto posizioni importanti, e magari si è goduto un po’ anche la loro invidia? In quei casi sei sempre difensivo, e ti copri con la corazza del vincente. “Si, mi ero stancato, e ho deciso di prendermi un po’ di riposo… Non condividevo più la direzione strategica dell’azienda…” e altre palle del genere. Anche perché i tuoi amici sono spesso i tuoi ex colleghi, o i tuoi compagni di MBA, contro i quali eri in gara fino al giorno prima.
Invece tra me e Friedrich era tutto chiaro, sul tavolo: io sapevo che lui era iscritto all’ufficio di collocamento, lui sapeva che lo sapevo, e poteva dirmi cose come “Mi hanno segato. Non sono più bravo come prima. Ci sono cose del mio lavoro che non capisco”. E io non facevo molto più che ascoltarlo, ma a lui bastava. Anzi, serviva.
Un giorno mi raccontò dell’ennesimo colloquio andato male con un headhunter, che cercava qualcuno nei servizi finanziari. Poi mi disse “Vuoi che gli dia il tuo nome? Cercano qualcuno che abbia esperienza anche nella tecnologia, magari ti interessa”. Non mi interessava, e non mi stavo guardando in giro, nonostante fossi seriamente demotivato, ma capii che Friedrich stava cercando solo un modo per sdebitarsi, per sentirsi utile, e gli dissi di si, di dare il mio nome a questo headhunter.
Due giorni dopo, quando l’headhunter mi telefonò, me ne ero già dimenticato. Dovetti persino scusarmi, e gli spiegai come era andata. “Io non ho nessuna esperienza nei servizi finanziari”, dissi. “Perfetto”, rispose lui. E mi invitò a pranzo.
Ci piacemmo. Scoprii che si trattava di una ricerca per uno dei più grandi gruppi finanziari in Svizzera. Mi presentò le persone in azienda, mi spiegarono che se avessero avuto bisogno di un esperto in sevizi finanziari sarebbe loro bastato fermare il primo che passava in corridoio, ma cercavano altro, un certo tipo di leadership, certe competenze tecnologiche, e anche qualcuno che pensasse out-of-the-box, come si dice in gergo.
Non cercai di vendermi nemmeno per un momento. Non indorai il mio CV, non spacciai superficiali infarinature per profonde competenze, non simulai un amore sconfinato per la loro azienda. Anzi, cercai di mettere in evidenza la sfida che per me avrebbe rappresentato ricoprire quella posizione. Fu un processo di selezione molto lungo, incontrai praticamente tutti, mi fecero assessment e misurarono cose che non sapevo nemmeno esistessero. Alla fine di ottobre mi fecero una offerta, molto buona, e io la accettai.
Ho un’età veneranda per molte cose, prima fra tutte per cambiare lavoro, figurarsi per essere addirittura inseguito da un headhunter. Ma mi è stata data l’opportunità di scegliere tra due strade: tirare i remi in barca senza che nessuno potesse biasimarmi, oppure rimettermi in gioco. Ho scelto: dal primo gennaio andrò a fare un lavoro che devo imparare praticamente da zero, dirigendo un reparto di persone che ne sanno molto più di me e che volevano il posto che è stato dato a me, contando su poco più che il mio charme e il mio fiuto. Sento di nuovo le farfalle nello stomaco, ed è una bella sensazione.
La seconda cosa, è che io non credo a questa cosa che se fai del bene disinteressatamente poi ti ritorna indietro dell’altro bene. Non ci credo, però funziona.
Nonostante sia uno dei più influenti pensatori del Novecento, Peter Drucker é totalmente ignorato dal dibattito politico italiano. Economista con influenze schumpeteriane e poi keynesiane, dopo essere fuggito da Vienna negli anni trenta a causa delle persecuzioni antisemite, Drucker insegnò quarant’anni ad Harvard, sviluppando niente di meno che il concetto stesso di “management”.
Prima di lui, infatti, il termine “manager” non era usato nel senso inteso oggi. I grandi capitalisti del secolo, i Carnegie, i Ford o i Rockefeller, non impiegavano manager nelle loro aziende: impiegavano invece “assistenti”, meri esecutori del genio imprenditoriale del loro datore di lavoro.
In una serie di articoli alla fine degli anni cinquanta, Drucker sviluppò il concetto di “Knowledge Worker”, ossia lavoratori che, anziché la propria energia meccanica, forniscono all’impresa funzioni intellettualmente sofisticate, come la capacità di analizzare situazioni, di risolvere problemi e di creare innovazione. Drucker sosteneva che questi lavoratori forniscono un contributo discrezionale al processo industriale, contributo che non può essere parcellizzato in una serie di compiti definiti e misurabili. Tra i Knowledge Worker e l’impresa deve quindi crearsi un meccanismo di identificazione emotiva e culturale, e la funzione più importate del manager é quella di motivare e promuovere questa identificazione. Al fine di valutare il contributo dei Knowledge Workers, che non poteva essere compreso in una misura oraria o quantitativa, Drucker formalizzò il concetto di Management By Objectives (MBO), nel quale forniva un modello di delega, incentivo e allineamento degli interessi individuali a quelli dell’impresa. Il lavoro di Drucker rappresenta uno dei pilastri fondativi della moderna teoria dell’impresa.
Un secondo pilastro é il concetto di “shareholders value”, ossia la teoria in base alla quale la società nel suo complesso trae beneficio se il management si concentra solo (e sottolineo “solo”) sull’obbiettivo della creazione di valore per i propri azionisti, ossia sull’aumento della valutazione delle imprese. Al fine di perseguire questo obbiettivo, gli azionisti incentivano il management tramite le stock options. Questo strumento é però generalmente limitato all’ amministratore delegato, ai suoi diretti riporti, o comunque ai livelli più alti della gerarchia. Per i livelli intermedi e inferiori, e dunque per gran parte dei Knowledge Worker, si cerca di incentivare la prestazione individuale sulla base dei princìpi del Management By Objectives di Drucker, assegnando premi in denaro (salario variabile) al raggiungimento di determinati obbiettivi in un definito arco di tempo.
L’orario di lavoro, e il salario basato su un orario definito, non sono quindi sotto attacco da oggi. Sono in realtà, per una massa molto ampia e crescente di lavoratori, ossia i Knowledge Worker di Drucker, concetti non previsti e di fatto non praticati dalla teoria neoliberale dell’impresa. Questi lavoratori, a seguito sia della identificazione culturale che dell’allineamento economico con gli obbiettivi finanziari dell’impresa, non si sentono interessati o coinvolti dalle rivendicazioni collettive sul tema dell’orario di lavoro. Allo stesso tempo, essi sono troppo (e sempre più) deboli per trattare individualmente le loro condizioni di lavoro e di retribuzione. Sono quindi lasciati soli, contro l’organizzazione aziendale, nel negoziare gli obbiettivi sui quali verranno misurati e quindi retribuiti. Non esiste quindi, per costoro, alcuna rivendicazione collettiva efficace che non ponga al proprio centro i criteri decisionali e direttivi dell’impresa, e persino le sue finalità.
In sostanza, la sola efficace azione di sinistra contro il tentativo di appropriazione da parte del capitale del tempo dei lavoratori, passa attraverso una ridefinizione della teoria d’impresa. Alla iniziativa sindacale deve accompagnarsi una teoria politica che risponda a quesiti come: cosa é una impresa? A cosa serve? Chi la dirige? Che valore deve generare? Come deve essere distribuito questo valore? Questo é il terreno teorico nel quale la sinistra deve vincere il conflitto con i rappresentanti politici del capitale.
Presi servizio una bella mattina di aprile. Avevo avuto dieci giorni per rimettermi dalle fatiche del corso Allievi Ufficiali, grazie a una cura a base di tagliatelle della mamma, docce con biancheria pulita e attenzioni della mia ragazza, e non potrei dire quale di queste tre cose mi fosse mancata di più, nei cinque mesi di addestramento. Mi ero classificato secondo su centoquattro (primo era arrivato un certo Scaglia, un milanese che poi avrebbe fatto parecchia strada nella vita), e quindi mi ero guadagnato il diritto di scegliere la destinazione di servizio. Scelsi ovviamente il posto più vicino a casa (e alle tagliatelle, e alla morosa), anche se si trattava di uno dei reparti più operativi del Quarto Corpo d’Armata Alpino.
Mi piacque subito. L’efficienza informale di un reparto in cui sottufficiali andavano e venivano da missioni internazionali, anziché impigrirsi in caserma, la burbera ospitalità alpina, l’atmosfera goliardica della “calotta” (la associazione informale degli ufficiali inferiori) si manifestarono tutte insieme il mio primo giorno di servizio. Anzi, il nostro primo giorno di servizio, dato che arrivai con cinque compagni di corso. Al contrario di me, non la avevano scelta loro, quella destinazione. Per loro significava ore di viaggio da casa, e la scelta tra dormire negli spartani alloggi ufficiali della caserma o affittare una stanza in un anonimo garni nelle vicinanze, in una città che non aveva mai amato particolarmente gli Alpini, considerandoli, in effetti, una truppa d’invasione.
Ci fu la semplice e bella cerimonia del nostro giuramento da ufficiali, celebrata consegnando simbolicamente la sciabola al nostro comandante e salutando la bandiera del reparto, che era stata anche in guerra. Venimmo poi assegnati ai nostri reparti, e mi trovai, del tutto inaspettatamente, a comandare un’intera compagnia, compito che spettava normalmente ad un capitano, o ad un tenente esperto, non certo a un “prima nomina”, e di complemento poi. Ne fui lusingato, anche se credo che la ragione fosse più dovuta ai misteri della distribuzione incarichi del ministero, che non alle stima o alle aspettative del mio Colonnello. Finimmo la prima giornata al circolo ufficiali (e che emozione entrarci per la prima volta), consumando con i colleghi più anziani la generosa riserva di alcolici che il nostro corso aveva offerto, come da tradizione, per ingraziarsi la loro benevolenza.
Imparai lì, a dirigere altre persone, e dopo quella esperienza non ebbi bisogno di imparare altro. Capii che i gradi sulle spalline non ti garantiscono il rispetto, ma solo l’opportunità di guadagnartelo realizzando aspettative più elevate. Compresi l’importanza di ascoltare prima di decidere, e poi di decidere senza esitare. Provai a capire quello che motiva davvero le persone e le loro azioni, e qualche volta ci riuscii. Mi piaceva partecipare alle esercitazioni, le marce in montagna, le gare di tiro. Insomma, mi divertivo. Sapevo che era solo un periodo, che mi aspettavano offerte di lavoro nel mondo reale, dove mi ero laureato da poco, ma devo ammettere che mi aveva sfiorato l’idea di firmare per rimanere nell’esercito, e il mio comandante mi aveva fatto capire che mi avrebbe appoggiato. Ma erano solo pensieri.
Arrivò in fretta l’estate, una strana estate, fredda e piovosa. Una notte di luglio stavo dormendo a casa di mia madre quando il telefono squillò. Era l’ufficiale di picchetto, uno del mio corso, un ragazzo di Brescia. “Gianni devi venire in caserma, siamo in allarme”. “Fabio, se é uno scherzo giuro che t’inculo col FAL”. “No,é serio, pirla, muoviti. Mettiti la mimetica e porta anche i vibram, se vieni da casa. Il Colonnello vuole tutti i comandanti di compagnia, solo che sono tutti in ferie, cazzo, non trovo nessuno!”. “Dai, tranquillo, arrivo”.
Non era uno scherzo. Le luci nelle camerate erano accese, incontrai un sergente della mia compagnia. “Cosa succede?” “Non si capisce, dice che forse dobbiamo partire. Gianni, io devo andare in licenza domani, anzi, oggi, ma se hai bisogno rimango”. “Grazie, fammi parlare col comandante, ti faccio sapere”. Andai dall’ufficiale di picchetto, quello che mi aveva telefonato, e lui mi accompagnò dove ci aveva convocato il Colonnello, nella sala accanto al suo ufficio. Quando il Colonnello entrò mi resi conto con un certo sgomento che ero, dopo di lui, il più alto in grado tra i presenti. Per le altre compagnie c’erano infatti solo dei marescialli, e l’ufficiale di picchetto, che era del mio corso, era inferiore di anzianità essendo arrivato più basso in classifica (una cosa sulla quale non finivo mai di prenderlo in giro). Fui quindi io a dare l’attenti e a presentare la forza. Ci furono pochi preamboli: “C’è stata una catastrofe naturale in Lombardia, dobbiamo andare a garantire le comunicazioni radio e telefoniche per le forze di soccorso e logistiche, dato che il Terzo non riesce ad arrivarci. Tenente, deve portare il suo reparto qui”, mi disse, indicando un punto su una carta geografica, “Quando arriva, si presenti al primo ufficiale dei carabinieri che trova, e si metta a disposizione. É tutto, grazie, riposo, si muova”.
“Salvatore, mi sa proprio che non ci vai in licenza, oggi. Siamo solo io e te. Mi serve la compagnia schierata in piazza d’armi tra venti minuti, assetto da manovra, armi e fureria, tre ponti e tutte le radio.” Quella sera fui grato al mondo per due cose: la sempre troppo sottovalutata professionalità dei sottufficiali dell`Esercito Italiano, e il mio istinto, che mi aveva suggerito di farmi molti amici tra i marescialli della caserma. Anche quelli che non erano della mia compagnia si diedero da fare per preparare i mezzi e le attrezzature, un po’ per dovere professionale, ma molto, credo, anche per l’istinto paterno di dare una mano a un pischello di venticinque anni che stava facendo una cosa che non aveva mai fatto prima.
Alle quattro e mezza di mattina si iniziava a vedere un po’ di luce dietro le montagne. Di fronte e me, schierati e inquadrati, nove camion per il trasporto dei ponti radio, dei generatori e della truppa, tre jeep, un sottufficiale e quarantotto Alpini, ai quali avrei dovuto trovare ricovero e ristoro prima di sera, senza contare il carburante per i mezzi, l’organizzazione di un’armeria, i turni di guardia e le altre diecimila cose che in quel momento ero sicuro di non ricordare. Gli uomini erano più eccitati che preoccupati, ma in qualche modo avvertivo la loro fiducia. Rimanevano ben inquadrati, fermi, sulla posizione di riposo, e dalla loro disciplina traspariva la consapevolezza di essere impiegati per qualcosa di importante. Era un reparto di leva, ma operativo e ben addestrato.
I fari dei mezzi tagliavano il buio assieme alle primi luci dell’alba. Il sergente ordinò l’attenti e mi presentò la forza. Diedi gli ordini di partenza. I motori si accesero, i militari salirono ordinatamente sui mezzi, io salii sulla jeep di testa, uscimmo in una lunga colonna sulla strada deserta. Per un momento, un momento solo, in quel preciso istante, capii la bellezza della guerra.
“Prova con un altro po’ di Cachaça, fidati” disse Roberto versandosene un bicchierino nel piattone pieno di feijoada e passandomi la bottiglia. Ci eravamo trovati d’accordo sul fatto che l’unico modo ragionevole per digerire uno dei pasti più pesanti del mondo fosse annaffiarlo con quella grappa tropicale, aspra e aromatica, fatta con la canna da zucchero. Versarla direttamente nel piatto era un’abitudine locale che quel giorno avevamo deciso di adottare.
Eravamo in un ristorante di Rio de Janeiro che Roberto si era fatto consigliare da amici del posto. Da quando aveva saputo che impazzivo per la feijoada aveva sempre trovato il modo di farmela trovare ogni volta che andavo in Brasile. Un piatto povero, come tutti i piatti veramente buoni: i pezzi meno pregiati del maiale che gli schiavi raccattavano nelle cucine dei latifondisti di Salvador de Bahia o di Recife, e che poi cuocevano in pentoloni pieni di fagioli neri e farina di manioca. Orecchie, zampe, musi, code, cotenna: le parti più grasse e cartilaginose, che avevano bisogno di ore e di giorni per essere cotti. Una versione meno romantica della storia parla di un piatto importato dalla soldataglia portoghese, ma io preferisco la prima. E poi forse sono vere entrambe. I ristoranti brasiliani la cucinano tradizionalmente solo due giorni alla settimana, il mercoledì e il sabato. E siccome non sempre mi fermavo il weekend, Roberto mi organizzava la settimana di modo da tenere qualche ora libera il mercoledì pomeriggio, per mangiare e digerire con calma il piatto tipico del suo paese.
Avevamo assunto Roberto qualche mese prima, dopo una selezione lunga e accurata. Cercavamo un General Manager per l’America Latina che fosse capace di farci prendere parte alla festa che si stava svolgendo in paesi che crescevano ritmo del sette per cento all’anno. Avevamo incaricato la società di consulenza Michael Page di occuparsi della selezione, e ci era costato una fortuna. Ma ne era valsa la pena.
Dopo una serie di videoconferenze ero volato a San Paolo con un collega per incontrare i candidati rimasti dopo le prime selezioni. Andare in Brasile in quegli anni era veramente una doccia di energia e di ottimismo. Michael Page ci organizzava i colloqui nella loro sede ad orari assurdi: le dieci, le undici di sera, anche più tardi. All’inizio pensavamo che fosse a causa delle disponibilità dei candidati, e della necessità di convocarli fuori dal loro orario di lavoro. Poi capimmo che per San Paolo, a quei tempi, quelli erano normali orari di lavoro. Arrivavamo alle dieci di sera e gli uffici erano pieni di gente, con le receptionist e le segretarie fresche e sorridenti come fossero state le dieci del mattino. Uscivamo verso mezzanotte e non riuscivamo a trovare un taxi, ci toccava fare la coda al ristorante. E la mattina dopo alle nove tutto ricominciava.
Il lavoro del manager in realtà é molto semplice, e si basa su una sola abilità: quella di assumere le persone più adatte per ogni ruolo. Ma quando arrivi ad esaminare una short list di tre persone, selezionate da una rosa di un centinaio, per una funzione di General Manager, in una regione che fattura una cinquantina di milioni di dollari all’anno, la scelta non è facile. In questo caso si hanno di fronte persone di straordinario valore, spesso molto migliori di chi le seleziona, e con curriculum molto simili tra loro. Io seguo sempre il criterio di scegliere la persona che non mi sarei stancato di sentire al telefono tutti i giorni, o di incontrare in ufficio all macchina del caffè. Uno che non mi avrebbe fatto sbuffare alla prospettiva di un viaggio insieme a visitare clienti. Con questo criterio scelsi anche Roberto, e fu una buona scelta.
Roberto era originario di Mina Gerais, dove aveva ancora un ranch che lo riforniva di carne e verdure tutte le volte che ci tornava per il fine settimana, ma era un paulista adottivo fatto e finito. Elegante, ironico, comunicativo, parlava bene anche il tedesco grazie agli anni passati a Monaco quando lavorava per Siemens, dove assieme alla lingua aveva appreso anche un certo rigore teutonico. Uno stile di leadership molto naturale, non lo ho mai sentito dare un’ordine a qualcuno, ma i suoi collaboratori lo rispettavano e lo seguivano. Una rete di contatti molto vasta, ben conosciuto dai clienti, il suo ingresso in azienda segnò davvero l’inizio di quella fase nuova che auspicavamo. Andavo a trovarlo ogni quarter per la revisione e per visitare qualche cliente (il solito gioco delle parti, in cui il capo che viene dalla Svizzera fa il poliziotto buono o quello cattivo a seconda dei casi), ma la vera ragione era che lo consideravo un amico, e mi piaceva passare del tempo con lui, in quel suo paese che sembrava nato dal racconto di un poeta ubriaco. E poi c’era la feijoada.
Quando finimmo di pranzare, decidemmo di fare una passeggiata fino alla spiaggia per digerire. Ci fermammo prima ad un baracchino per prendere un’altro espresso (il Brasile é l’unico paese al mondo in cui si beve un caffè buono come in Italia) e per accenderci i Montecristo Numero 2 che avevo comprato all’aeroporto. Avevamo due buone orette prima di prendere un taxi per il nostro appuntamento del pomeriggio.
Ci sono città dove potrebbero portarmi bendato, di notte, lasciandomi nell’angolo più buio ed anonimo, e le riconoscerei lo stesso, come si riconosce qualcuno dalla sua sagoma, dal modo di camminare, dal profumo dei capelli. Gerusalemme, Praga, Hong Kong, Marsiglia: certe città sono proprio come persone, persone che conosci. La luce morbida anche in pieno sole, il cielo altissimo, il ruggito profondo e cupo dell’ oceano, la sfilata superba e indifferente dei giovani più belli del mondo, gli odori mischiati dei gas di scarico e del pesce non lasciavano dubbi sul fatto che in quel preciso momento io fossi a Rio de Janeiro.
Arrivammo ad Ipanema e ci sedemmo sotto l’ombrellone di un bar. Stavamo lì, parlando poco, godendoci la nostra amicizia, il caffè e i nostri sigari.
Quando si avvicinò l’ora del nostro appuntamento, non ci decidevamo ad alzarci. Una battuta, uno scherzo in più, l’ultimo caffè: ogni scusa era buona per ritardare di un poco il nostro pomeriggio di qualche ora. Sembrava quel film di Buñuel, dove gli invitati di una cena non riuscivano ad alzarsi e ad uscire dalla stanza, benché non ci fosse nulla di apparente a trattenerli, a parte la loro volontà.
Finché Roberto lo disse: “Senti, rimaniamo qui?”
Una domanda assurda, scandalosa. Quasi offensiva, a pensarci bene. Ero il suo capo, e lui mi proponeva di rimandare un appuntamento per il quale ero volato per quindicimila miglia. E poi non era certo da lui, Roberto era il nostro brasiliano-tedesco, il manager rigoroso e preciso che tanto apprezzavamo. Bucare un appuntamento, come due studenti che fanno fuga da scuola. Incredibile.
Questo era a quello che avrei dovuto pensare. Invece mi vennero in mente tutte le cose a cui avevo rinunciato per lavoro, ma non il motivo per cui lo avevo fatto: l’ultimo compleanno di mia nonna, per una riunione non ricordo nemmeno con chi. Il raduno degli Alpini nella mia città a causa di un viaggio, non ricordo dove. Una domenica senza mia moglie per scrivere un rapporto che nessuno avrebbe letto. Mi chiesi cosa era rimasto di tutto quel lavoro, e per la prima volta pensai che non ne era valsa la pena. Mi sentivo come qualcuno che avesse subìto un furto, e sapevo che il ladro ero io.
Forse Roberto pensava le stesse cose, e credo che nessuno dei due avesse voglia di rinunciare ad un pomeriggio come questo, passato con un amico, fumando sigari, guardando le ragazze e bevendo caffè ad Ipanema. In mancanza di un significato, almeno guadagnare un ricordo in più da portarsi dietro.
“Si, rimaniamo qui” gli risposi, con naturalezza. Digitammo qualcosa alle rispettive segretarie, mettemmo via i telefoni e ordinammo un’altra Cachaça.
Io però, prima, scattai la foto che vedete qui sopra.
In economia, esiste un concetto chiamato “agency problem”. É il problema di allineare gli interessi di chi dirige un’azienda (il management) con gli interessi di chi possiede la stessa azienda (gli azionisti). In tempi recenti, si é pensato di risolvere questo problema con le stock options. Si da cioè la possibilità al management di comprare azioni della loro stessa azienda ad un prezzo fisso e predeterminato (diciamo 20 dollari ciascuna, ad esempio) per un certo periodo di tempo. Ovviamente, se in quel periodo di tempo, sul mercato, le azioni arrivano a valere più di questo prezzo fisso e predeterminato (diciamo che arrivano a valere 22 dollari), il manager ci guadagna: compra semplicemente le azioni al prezzo che le opzioni gli garantiscono (20 dollari) e le rivende subito al loro valore di mercato (22 dollari) guadagnando quindi 2 dollari ad azione.
Su quale obbiettivo é quindi incentivato il manager? Il manager é incentivato ad aumentare il valore della azienda. Non ad aumentare le vendite, o i profitti, o le quote di mercato, o nessun altro valore: il management ha l’incarico semplicemente di fare aumentare il valore della azienda, ossia il valore delle sue azioni. Questo é infatti l’obbiettivo anche dei proprietari dell’azienda (gli azionisti): vedere aumentare nel tempo il valore delle proprie azioni, ossia il guadagno del loro investimento.
Ma come si fa ad aumentare il valore delle azioni, ossia a perseguire l’obbiettivo sul quale management ed azionisti sono allineati? Negli anni novanta si é iniziato a parlare di New Economy. La definizione si é poi ristretta a designare le aziende che operano nel web o in tecnologie analoghe, ma il concetto é molto più ampio di questo, e intende una economia in cui il costo marginale di un prodotto (ossia il costo per produrre la prossima unità di quel prodotto) é praticamente zero. Per produrre la prossima copia di software, o di un’applicazione, o di un pezzo musicale, il costo é solo quello del supporto, ma la nuova copia in sé non costa nulla. I teorici di questo concetto arrivarono ad immaginare una economia tendenzialmente senza magazzini e depositi, quindi senza crisi di sovrapproduzione, quindi in perenne espansione. La recente crisi del 2008, infatti, non é stata dovuta ad una crisi di sovrapproduzione classica, ma alla insostenibilità del modello finanziario. In sostanza, la nuova economia si basa sull’idea di rendere inutile il lavoro che non sia quello della ideazione di nuovi prodotti o servizi.
Di conseguenza, un’azienda, oggi, aumenta il proprio valore, ossia raggiunge gli obbiettivi che sia gli azionisti che il management si prefiggono, tanto meglio e tanto più rapidamente quanto meno lavoro impiega. Ogni volta che vengono pubblicati dati positivi sull’occupazione negli Stati Uniti, la borsa ha una diminuzione significativa. La valutazione delle aziende é tanto più alta quanti meno sono i dipendenti. Una delle aziende più valutate degli ultimi tempi, Whatsapp, é stata comprata da Facebook per sedici miliardi di dollari mentre impiegava circa trenta dipendenti: la dimensione di una grande pizzeria.
Non si licenzia quindi quando si é in crisi, per risparmiare sui costi: si licenzia sempre, ogni volta che é tecnicamente possibile, allo scopo di fare aumentare la valutazione dell’azienda e quindi il guadagno delle stock options dei manager. Licenziare non é quindi conseguenza di cattivo management, al contrario: si licenzia per perseguire gli obbiettivi espliciti e dichiarati che gli azionisti hanno indicato al management. Si licenzia tenendo in azienda solo il personale strettamente necessario a garantire la minima operatività tecnica, a costo spesso anche di turni massacranti, straordinari e cattive condizioni di sicurezza. Tanto meno sono i lavoratori impiegati in un’azienda, tanto più gli azionisti e il management ci guadagnano. Gli interessi del management e quelli dei lavoratori sono quindi in conflitto mortale. Aspettarsi che una violenza di tale portata venga esercitata da una parte sola é illusorio.
Il ragazzo era molto sveglio, e come molti cinesi aveva occidentalizzato il suo primo nome in omaggio all’ignoranza di noi farang, incapaci di pronunciarlo decentemente. Si faceva quindi chiamare Martin (il nome vero non l’ho mai saputo), un nome comune anche in Svizzera (altro segno d’attenzione). Era ancora un po’ acerbo, ma sveglio, e ambizioso. I suoi genitori erano in campagna, lui era ingegnere e in futuro voleva fare un master “ma non in Cina”. Lavorai due giorni con lui, lasciai i compiti da fare al tedesco, e me ne tornai a casa con un certo sollievo, nonostante il mio amore per l’Asia.
Atterrai a Zurigo il sabato mattina, e trovai un messaggio di Peter che mi chiedeva se volevo raggiungerlo a casa sua per colazione. Recuperai il bagaglio, mi feci una doccia nella Senator Lounge di Swiss, e presi un taxi. Era una giornata limpidissima, tanto più gradevole dopo le nebbie e i fumi cinesi, e dal terrazzo di Peter si godeva una vista gloriosa del lago di Zurigo. Il suo appartamento da single, un duplex nel quartiere elegante di Zollikon, non lasciava dubbi sulle sue origini e disponibilità economiche. Erede di una delle famiglie più ricche del paese, invece di presentare la tesi di dottorato all’ Istituto Federale di Tecnologia aveva preferito prendere in mano una delle aziende fondate dallo zio, e da una decina d’anni la guidava con una certa pragmatica abilità attraverso uno dei periodi più burrascosi nella storia di quell’industria. Mi piaceva, Peter, e io piacevo a lui, almeno fino a quando avrebbe avuto bisogno di me. Mi aveva assunto due mesi prima su indicazione di un cliente comune che sapeva sarei rientrato in Europa a breve. Il colloquio d’assunzione era durato meno di un quarto d’ora.
La colazione Peter se la faceva arrivare direttamente da Sprüngli, sulla Bahnofstrasse, e io ero talmente affamato che dovetti trattenermi dal divorare tutte quelle croissant tiepide ripiene del cioccolato migliore del mondo. Peter si informò con cortesia su come era stato il volo, sul tempo e su altre amenità, e con naturalezza calvinista spostò poi gradualmente il discorso sugli affari. Ero stato in Asia due settimane, visitando i principali clienti, le nostre filiali a Singapore e in Cina, e adempiendo alle formalità burocratiche per entrare ufficialmente nei rispettivi board. Era il mio primo viaggio nella regione per conto di Peter, ed immaginai che lui fosse più interessato alle mie impressioni che non ai dati di vendita, che conosceva peraltro benissimo.
Una specie d’istinto mi suggerì di soffermarmi a lungo su Singapore. Il nostro capofiliale, un cinese chiu-chow che si faceva chiamare YL, era benvoluto da tutti: dagli svizzeri perché si comportava come uno svizzero, e dai cinesi perché…beh, perché era un cinese, e nel sud-est asiatico, per fare affari, essere cinesi era importante. Gli immigrati musulmani, indiani o bangladeshi, non avevano ancora raggiunto uno status tale da essere presi sul serio dalle banche o dai grandi investitori internazionali, mentre i cinesi erano già alla terza generazione di una comunità laboriosa e affamata.
YL era famoso per la sua paranoia. In ufficio teneva un PC che aveva installato personalmente e teneva staccato da tutte le reti, compresa quella elettrica, alimentandolo con delle batterie che cambiava e ricaricava. Su quel PC calcolava i prezzi per tutte le offerte importanti che faceva, che poi stampava (stessa procedura per la stampante) e inviava con la posta ordinaria. Quando gli chiesi la ragione, mi disse “per gli hacker”, e di fronte al mio scetticismo insisteva: “lo sai quanto costa a Shenzhen un hacker bravo? 50 dollari a settimana. Vuoi sapere i prezzi della concorrenza? 50 dollari” insisteva ridendo, e facendomi il segno di 50 dollari con la mano aperta. “Non che io ne abbia mai fatto uso” concludeva con un sorrisino innocente. Ma YL era un amico, grande lavoratore, sincero sulle cose importanti. Andavamo d’accordo. Peter e io ridemmo un po’ parlando di YL, e trovandoci entrambi soddisfatti di come faceva andare avanti le cose dalle sue parti.
Poi ci fu un silenzio, un’esitazione, una domanda fatta senza guardarmi: “E il nostro amico a Shanghai, come lo hai trovato?”.
Dovevo essere cauto. Ero in azienda da due mesi, non sapevo chi lo aveva messo lì, il tedesco-con-moglie-cinese, non sapevo cosa ne pensasse Peter. Francamente, dovevo dargli anche il beneficio del dubbio, prendere sul serio l’opportunità che io stesso gli avevo dato per rimettersi in carreggiata. “Dobbiamo lavorarci sopra”, risposi, e Peter sorrise senza aggiungere altro. Io pensai intanto al mio notebook, dove avevo annotato l’email privata e il numero telefonico di Martin, il cinese che aveva deciso di farsi chiamare come un postino di Aarau o un tranviere di Solothurn.
È quello che pensai subito, la prima volta che lo vidi. Non aveva ancora parlato, e le nostre mani non si erano ancora unite nella stretta con la quale noi manager ci scambiamo, attraverso onde di energia impercettibili agli umani, nome, grado, reddito imponibile e posizione nella catena alimentare. Non avevo ancora letto niente di lui, di come andava, se era bravo o meno, se era “in budget”, o se, come la gran parte dei nostri capi filiale, stava invece annegando. Era proprio una sensazione di pelle.
Grasso, poco curato, nemmeno la gentilezza di mettersi una giacca il giorno che incontrava il suo nuovo capo. E poi tedesco. Un tedesco a capo della filiale in Cina, scelto in base ad alcuni oscuri meriti, il più ragionevole dei quali sembrava essere il fatto di avere una moglie cinese. Lamentoso, polemico, vago sulle analisi. La barzelletta del cattivo venditore, quello per cui i nostri prodotti non sono mai buoni, la concorrenza sempre troppo forte, i nostri prezzi sempre troppo alti.
E andava male. Due uffici, Pechino e Shanghai. Vista sulla città’ nuova attraverso il fiume, ufficio d’angolo naturalmente. Quindici dipendenti, incluso il suo autista, che costava poco, e’ vero, ma vabbè. Profitto operativo sotto zero, pagava i dipendenti e il suo oltraggiosamente alto stipendio con quello che gli trasferivamo da Zurigo. “E’ un mercato complicato, ci vuole tempo. La burocrazia cinese, e poi lavorano poco, le decisioni vengono prese con lentezza” si lamentava, nel suo inglese metallico e con quell’aria di superiorita’ che mi aveva fatto subito innamorare. “Io questo lo sego”, ripensai molte volte durante quel primo incontro.
Invece feci quello che dovevo fare. “Facciamo un piano insieme, diamoci delle scadenze”. Accetto’ con una certa sdegnosa condiscendenza, e incominciammo a provare a mettere assieme qualcosa di sensato. Sconti speciali, training ai distributori, un paio di eventi, un piano di visite clienti. Ovviamente lui era troppo impegnato con attività ben più importanti di quelle necessarie per salvarsi il culo, e per definire questi dettagli, per lui insignificanti, mi assegno’ un ragazzo di una trentina d’anni del suo team.